Scola: Nuovi modelli di lavoro nella famiglia oggi

VII Incontro Mondiale famiglie Milano 2012                                                Il Sole 24 ORE

Dalla crisi economica alla speranza affidabile

Nuove politiche sociali e di lavoro per la sostenibilità della famiglia

Milano, 17 maggio 2012. Sede Gruppo 24 Ore – Via Monte Rosa, 91, ore 18.15

Tavola Rotonda: uovi modelli di lavoro nella famiglia oggi

  

Angelo Card. Scola Arcivescovo di Milano

 

1. Priorità al soggetto del lavoro

 

In una fase di transizione come quella odierna, il lavoro è esposto a cambiamenti talmente rapidi da esigere di essere affrontato con modelli e progetti nuovi. In particolare, di fronte alla grave crisi dell’occupazione e alla necessità di rilanciare lo sviluppo, è ancora adeguato quel caposaldo della Dottrina sociale della Chiesa che parla della centralità del soggetto del lavoro come fondamento del primato del lavoro sul capitale? Il rapporto produzione-finanza, ed in special modo la fisionomia oggi assai contraddittoria di quest’ultimo, consente ancora di non considerare velleitario questo principio costantemente ribadito dal Magistero sociale della Chiesa?

Il mio intervento non entra direttamente nelle questioni affrontate da chi mi ha preceduto relative a nuovi modelli di lavoro in relazione alla famiglia oggi. Non avrei tra l’altro competenza per parlarne. Mi limiterò a giustificare con qualche argomento la tesi enunciata.

Cominciamo col dire che l’esperienza comune ad ogni uomo documenta, in modo elementare, questa evidenza: il lavoro, in quanto attività propria dell’uomo – e, quindi, a prescindere da ogni sua ulteriore qualificazione (manuale, intellettuale…) – è il motore di ogni attività economica. Il lavoro apre ad essenziali relazioni interpersonali e ai rapporti di scambio che sono al cuore di ogni intrapresa economica. Questa implica sempre un insieme di scelte e di decisioni, ultimamente basate sulla fiducia, che si ripercuotono sugli altri.

 

Per mostrare l’efficacia e l’attualità di questa tesi bisogna quindi porre in primo piano il soggetto del lavoro. Con una precisazione: alla Chiesa interessa l’uomo «reale, concreto, storico… ciascun uomo» (Redemptor hominis, 13).

 

2. Lavoro, bisogni e desiderio

 

D’altra parte è necessario affermare con forza che, quando si parla dell’improcrastinabile urgenza di generare lavoro, lo si fa ben consapevoli che non è sufficiente all’uomo soddisfare i bisogni, ma è necessario riconoscere un’apertura al desiderio.

Il bisogno è troppo spesso interpretato come diritto esclusivo al benessere. Esso è, invece, anzitutto segno di fragilità. Se non lo si riconosce, il bisogno si trasforma in pretesa e diventa sorgente di dominio. Infatti, l’esperienza della fragilità non è risolvibile nella logica della dilatazione indefinita del consumo: niente di quel che consumiamo è in grado di rimediare la strutturale “mancanza” (bisogno) che caratterizza il modo umano di essere al mondo. Pretendere un soddisfacimento totale attraverso il consumo è un mito tecnocratico. Anche se sembra ormai aver sgretolato la sua stessa promessa questo mito viene riproposto incessantemente.È infatti chiaro che la pretesa di ricorrere al consumo indiscriminato ha un costo umano, oltre che ambientale, di incalcolabile portata, che sempre meno può condurre al soddisfacimento e alla felicità, nemmeno a quella dei pochi che ancora ne beneficiano.

Il bisogno come segno di fragilità documenta invece la necessità di reinterpretare la questione cruciale della soddisfazione umana. Lo stesso fatto per cuil’uomo non può far fronte ai propri bisogni, se non con la mediazione di una cultura del bisogno, una cultura innanzitutto pratica, quella cioè della sua prassi ideativa e lavorativa, indica che il sistema dei bisogni umani dev’essere pensato come un sistema aperto oltre se stesso.

Del bisogno di cibarsi l’uomo fa un’arte culinaria, del bisogno di vestirsi fa uno stile d’abbigliamento e di relazione sociale, del bisogno di ripararsi fa un sapere architettonico e un modo di trasformazione dell’ambiente, ecc. Questo rivela che l’uomo in rapporto a specifiche situazioni di bisogno non risponde mai solo a reazioni preordinate, ma è sempre, in qualche misura, teso al “superamento”, al “progetto” sia mediante trasformazioni pratiche, sia mediante l’attribuzione di significati culturali a ciò che egli stesso fa.

In altri termini, è necessario riconsiderare la plasticità dei bisogni umani come espressione di una istanza antropologica che implica una duplice apertura dei soggetti umani a partire dai bisogni stessi. Da una parte, l’apertura di un’intelligenza inventiva, che in qualche modo domina, manipola, trasforma in continuazione i profili e i contenuti dei bisogni; dall’altra, l’apertura di una dimensione che possiamo chiamare di desiderio, che esprime la capacità di riformulare continuamente i bisogni. Qui il proprio dell’uomo si manifesta come facoltà di porsi, col desiderio appunto, al di là dell’ordine stesso dei bisogni, puntando a una condizione in cui tra l’essere nel bisogno e l’elaborazione dei bisogni vi sia un’ideale armonia, una condizione di pacificazione dinamica. Infatti ciò che muove l’uomo (e solo l’uomo) nell’affrontare i suoi bisogni è l’ideale di vivere in un modo equilibrato, integrato, giusto, pacifico.

In questo quadro si vede tutta l’importanza del lavoro nelle sue articolate espressioni produttive, economiche e finanziarie, ma soprattutto, attraverso l’affermazione della centralità del soggetto del lavoro, nel suo rapporto con la famiglia e la società che domanda riposo personale e sociale.

In particolare, ci dicono gli esperti, in economie già avanzate come quelle occidentali, ma oggi tremendamente in affanno, una delle risorse più efficaci per produrre crescita e sviluppo è l’innovazione. E da dove può provenire l’innovazione se non mobilitando l’energia, il dinamismo e la creatività di soggetti liberi e responsabili? Non c’è innovazione senza cultura e non c’è cultura senza educazione. L’educazione è la miglior garanzia del bene prioritario che consiste nell’insuperabile primato del soggetto in relazione. E l’educazione mette in campo in termini decisivi la famiglia.

 

È a questo punto evidente che la soddisfazione umana implica l’apertura ad una prospettiva di compimento integrale dell’esistenza, che non può essere affrontata con una misura puramente quantitativa. Attitudine che purtroppo non di rado investe il modo di concepire il lavoro, l’economia e gli obiettivi della politica (che sovente è a rimorchio del modello utilitaristico dominante in campo economico). L’effetto, in termini antropologici, è stato ben evidenziato dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen e dal filosofo Bernard Williams: le persone finiscono di fatto per non contare «più dei singoli serbatoi di petrolio nell’analisi del consumo nazionale di petrolio»[1].

Opporsi a questa concezione di “uomo-serbatoio” implica fare i conti con la mentalità oggi dominante secondo la quale l’uomo, per porre la propria identità, deve concepirsi in maniera puramente individuale, come uomo senza relazioni.

Le sfide che la crisi pone alla famiglia sono ingenti ed eccedono le possibilità di risposta dei soli operatori economico-finanziari. Esse chiamano perciò in causa una molteplicità di soggetti.

 

3. Politica e famiglia

 

Mi limito, come conclusione, a proporre qualche rilievo riferito alla politica.

Le istituzioni politiche, cui spetta il difficile compito di fornire allo stesso tempo soluzioni immediate e azioni di medio e lungo periodo, sono a mio avviso chiamate a orientare la loro azione secondo un decisivo criterio. Mi riferisco all’adeguata valorizzazione, attraverso il principio di sussidiarietà, del protagonismo tipico della famiglia come espressione primaria della società civile. Sono infatti gli attori della società civile, come ormai riconoscono le più acute interpretazioni sociologiche contemporanee, a generare quel capitale di solidarietà di cui nessuno Stato democratico può fare a meno[2]. Basti pensare a come la famiglia abbia attutito, per lo meno in Italia, alcuni effetti della crisi che avrebbero potuto essere ben più devastanti. Le statistiche mostrano però che il reddito delle famiglie italiane, a differenza di Paesi come Francia, Germania, Stati Uniti, è consistentemente calato con la crisi.

Le istituzioni politiche non debbono gestire la società civile, debbono solo governarla. Questo non significa però che le istituzioni statuali debbano sottrarsi al compito di fare finalmente solide politiche per la famiglia con particolare riferimento alla conciliazione famiglia-lavoro.

Ripartire quindi dal soggetto del lavoro, tenendo in equilibrata considerazione tutti i fattori costitutivi legati all’esperienza originaria degli uomini e delle donne, indicati con chiarezza dal tema del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, “La Famiglia: il lavoro e la festa”, rappresenta una imprescindibile condizione per generare vita buona, personale e sociale. L’uomo, infatti, è un io-in-relazione perché è «totalità unificata», come con icastica espressione ha insegnato la Gaudium et Spes (n. 3). Affermare anche oggi con forza il primato del soggetto del lavoro non è la strada di un ritorno impossibile al passato. Al contrario è il cammino della speranza affidabile.



[1] A. K. Sen – B. Williams, Introduzione: utilitarismo e oltre, in Id., Utilitarismo e oltre, NET, Milano 2002, 5-30; cit. 9.

[2] Cfr. P. Donati – M. Archer (dir.), Riflessività, modernizzazione e società civile, Franco Angeli, Milano 2010; J.-L. Laville – P. Glémain (dir.), L’économie sociale aux prises avec la gestion, Desclée de Brouwer, Paris 2010 ; J. Braun – G.S. McCall (dir.), Dilemmas in nation-building, Blackwell for UNESCO, Oxford 2009; C. Ruzza – V. Della Sala (dir.), Governance and civil society in the European Union, vol. 1. Normative perspectives, Manchester University Press, Manchester, UK; New York, NY (Distributed exclusively in the USA by Palgrave) 2007; M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Laterza, Roma Bari 2005.

 

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